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Immagini ovunque, verità rare: il docufilm è il cinema che ci fa pensare
(foto di Paola Caputo)
by Paola Caputo
Nel 2025, ogni persona ha in tasca una videocamera HD. Lo smartphone è diventato uno strumento di ripresa quotidiana, capace di documentare la realtà in tempo reale. Dalla vita privata alle emergenze pubbliche, tutto può essere filmato, condiviso, archiviato. In questo scenario, il cinema non può più limitarsi a mostrare ciò che già vediamo: deve elevarsi, interpretare, offrire uno sguardo che vada oltre.
Il valore del cinema oggi risiede nella sua capacità di dare “qualcosa in più”: una visione stratificata, che unisca tecnica, estetica, contenuto morale ed etico. Ogni film dovrebbe essere leggibile su più livelli, accessibile a chi cerca intrattenimento, ma anche a chi desidera riflessione, memoria, denuncia. È qui che il docufilm si impone come genere necessario.
Il docufilm è un’opera cinematografica che unisce il linguaggio del documentario alla costruzione narrativa del film. Racconta fatti reali, ma con una regia che ne amplifica il significato. È il cinema del reale, ma anche della coscienza. Un genere che si presta a molteplici chiavi di lettura, ciascuna adatta al livello di conoscenza e sensibilità del pubblico.
Tra i maestri del docufilm spicca Pier Paolo Pasolini, di cui ricorre quest’anno il 50° anniversario della morte. Poeta, regista, intellettuale, Pasolini ha saputo fondere verità e visione, come ne Il Vangelo secondo Matteo, girato tra i calanchi calabresi. Le celebrazioni del 2025, da Cutro a Casarsa, lo restituiscono come figura profetica e attualissima. Pasolini ha anticipato il potere delle immagini come strumento di denuncia e poesia. Nei suoi documentari come Comizi d’amore, ha interrogato l’Italia profonda con uno stile diretto e provocatorio. La sua opera è ancora oggi una lente critica sulla società, capace di parlare a generazioni diverse. Il suo cinema è un atto politico, un gesto di verità.
Altro nome imprescindibile è Mimmo Calopresti, vincitore del Nastro d’Argento 2025 con Cutro, Calabria, Italia, docufilm sulla strage di migranti del 2023. Calopresti ha dichiarato: “Si avvera la profezia di Pasolini”, sottolineando il legame tra memoria e impegno. Già nel 2009 aveva diretto La fabbrica dei tedeschi, un potente docufilm sull’incendio alla ThyssenKrupp di Torino, in cui morirono sette operai. Il film, crudo e toccante, denunciava le condizioni di lavoro e l’indifferenza istituzionale. Con uno stile asciutto e partecipe, Calopresti diede voce ai familiari delle vittime, trasformando la cronaca in testimonianza collettiva.
Accanto a loro, ricordiamo Frederick Wiseman, maestro dell’osservazione istituzionale; Werner Herzog, che ha reso epico il reale; Agnès Varda, pioniera della soggettività documentaria; e Errol Morris, capace di interrogare la verità con stile investigativo.
Il docufilm non è solo un genere: è una necessità. In un mondo saturo di immagini, serve uno sguardo che le organizzi, le interroghi, le elevi. Il cinema, per restare vivo, deve tornare a essere coscienza visiva. E il docufilm è la sua voce più autentica.
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